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Inquiete cure fotografiche


«La Cura mentre stava attraversando un fiume scorse del fango cretoso; pensierosa ne colse un po' e incominciò a dargli forma. Mentre è intenta a stabilire che cosa abbia fatto, interviene Giove. La Cura lo prega di infondere lo spirito a ciò che essa aveva fatto. Giove acconsente volentieri. Ma quando la Cura pretese ivi porre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo proibì e volle che fosse imposto il proprio. Mentre Giove e la Cura disputavano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché aveva dato a esso una parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice. Il quale comunicò ai contendenti la seguente decisione: "Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, che hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, finché esso vive, lo possieda la Cura. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo perché è stato tratto da humus (Terra)»

La parola Cura, nel testo latino, equivale a Inquietudine, un termine dotato di grande polisemia. Non solo inquietudine, ma anche sorveglianza, governo, lavoro, curiosità, ricerca. La storia, insomma, ci dice che la vera creatrice dell’ uomo è la cura. Quell’ inquietudine-carburante che regge la nostra vita e la spinge oltre il banale, verso mete più degne del nostro essere uomini.

Legare il mito di Cura alla fotografia, è una idea alquanto idiota che forse può venire solo a me. Eppure l’arte fotografica, come tutta l’arte in generale, è mossa da un senso di inquietudine esistenziale profonda. Lo sguardo stesso che si posa sulle cose, attento, sensibile non è già una forma di cura, non è già relazione? Il maestro Luigi Ghirri ci ha lasciato un grande insegnamento: fotografia come un “modo di relazionarsi col mondo”. E’ qualcosa di più questo messaggio. Non è solo una lezione fotografica, ma bensì etica. Tanto che dirà fotografia perchè “il mondo continui a guardare il mondo”.

Cristina Finotto è questo sguardo inquieto e curativo al tempo stesso. Non è poi lontana da quella fanciulla che se ne andava lungo le rive del fiume pensierosa. La si può trovare spesso lungo il Po con la sua macchina fotografica al collo. Curiosa, semplice si stupisce ancora del poco o del niente. Vive di questo grande fiume che alimenta il suo animo e lui generosamente la ricambia. Non posso omettere di essere legata a lei da una profonda amicizia. Proprio per questo, il mio pudore, mi spinge quasi a tacere, a non osare oltre. Anche la scelta dell’immagine va in questa direzione. Una foto minimalista, concettuale che non raffigura i canoni classici del vecchio fiume. Che può deludere perché richiede molto per essere colta. A differenza di Cura, lei non crea uomini, ma dà forma a sentimenti ed emozioni che non possono non dirsi umani.

testo di Rachele Claudio

Nota Il Mito di Cura riportato sopra, è tratto da Essere e Tempo di M. Heidegger (trad. it. Longanesi, Torino, p. 247) a sua volta ripreso dalla favola-mito di Igino, scrittore latino del I secolo d.C.


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